Il profilo di Maria Antonella Galanti nel ricordo della collega e amica Simonetta Bassi

maria antonella galanti

Pubblichiamo il ricordo della professoressa Maria Antonella Galanti scritto dalla collega e amica Simonetta Bassi.

maria antonella galantiÈ difficile parlare di Maria Antonella Galanti, per le sfaccettature della sua complessa personalità e per l’intenso lavoro che ha svolto, prima all’Università di Firenze poi in quella di Pisa, sia nell’ambito della ricerca che, con pari impegno e coinvolgimento, in quello della didattica.

Ciò che caratterizza Antonella è proprio il nodo che ha saputo stringere fra la dimensione privata e quella pubblica: i tratti del suo carattere – libero, originale, passionale e coraggioso – si sono trasfigurati in un serissimo lavoro pedagogico inteso in senso ampio e, per usare un lemma da lei spesso usato, reticolare. Di questo intreccio – di esperienza personale e di impegno lavorativo, di elemento soggettivo e oggettivo – Antonella non solo è pienamente consapevole, ma si può dire che lo pone come fulcro teorico della sua ricerca. Più volte nei suoi libri insiste sul fatto che ciò che caratterizza la pedagogia è proprio la possibilità di “comprendere in sé maggiormente, rispetto alle altre discipline, la voce della soggettività, del disordine, della creatività”. Né questo ne indebolisce lo statuto epistemologico: ogni relazione educativa, scrive infatti Antonella, non solo genera, od ostacola, apprendimenti, ma anche un legame affettivo che è ogni volta particolare e unico. Debole e di scarso valore epistemologico è quindi quella prospettiva che inquadra separatamente, come irrelati, uno o più aspetti di una condizione, come quella formativa, che si presenta per sua natura complessa, perché continuamente si genera in uno spazio contraddistinto da oscillazioni costanti: da una parte la sicurezza esistenziale di chi ha in mano i segreti del sapere; dall’altra la ricerca di quella medesima sicurezza da parte di chi vuole adattarvisi attraverso però un movimento di ribellione e contestazione, che può generare smarrimento – ed è un altro lemma caro ad Antonella – in chi credeva di aver ormai neutralizzato ogni dimensione di fragilità.

Per Antonella nella relazione educativa, come d’altra parte in ogni relazione, dopo aver ben definite distanze e differenze individuali, bisogna tenersi per mano in un gioco che non accetta limiti né reticenze: solo così si può accedere a una comprensione il più possibile aperta del mondo umano razionale e affettivo, capace di abbracciare ciò che si assimila al pensiero e ciò che riguarda la regione del sentire e dell’affetto, fonte di conoscenza non immediatamente razionale. Cogliamo allora, e sono parole sue, “la soggettività individuale, la dimensione temporale propria e una propria colorazione dello spazio che separa o che avvicina”, proprio come nel gioco o nel sogno.

Antonella ha affinato questa prospettiva, che in modo forse troppo rapido ho provato a riassumere, in un percorso scandito da tappe significative: un volume su “Affetti ed empatia nella relazione educativa” (2001), un secondo su “Sofferenza psichica e pedagogia” (2007), seguiti dai lavori dell’ultimo decennio (“Smarrimenti del sé”, “Disturbi del neurosviluppo e reti di cura” con Bruno Sales, “Un manicomio dismesso” con Mario Paolini) in cui con sempre maggiore limpidezza ha evidenziato il ruolo ambivalente della fragilità che, come lo smarrimento, può generare sofferenza psichica, ma porsi anche all’origine di una spinta verso l’autonomia e la capacità di guardare la meraviglia del nuovo. Si parte dalla conoscenza e accettazione dei limiti – perdita, paura, stasi emotive e psicologiche – per provare a valicare i loro confini, a riconfigurare un presente per noi meritevole di senso. Antonella spiega con sempre maggiore forza che questo processo si rende possibile solo grazie all’incrocio degli sguardi: la matrice della sua ricerca pedagogica è descritta in dense pagine pubblicate l’anno scorso – “Un manicomio dismesso, un sotterraneo pieno di storie e una pedagogista” –, dove l’autrice si dice convinta che la malattia psichica può essere attenuta o evitata con accorgimenti educativi di tipo preventivo e che – qui l’accento si fa acuto – lo sfondo di ogni approccio pedagogico non può prescindere dal sentimento empatico di comprensione della sofferenza che scaturisce da ogni fragilità, anche quella più estrema.

“La mia motivazione profonda come pedagogista – scrive Antonella – è legata all’impossibilità di sentirsi felici nella consapevolezza dell’infelicità indicibile di altri”. Antonella è ben consapevole che la condizione umana è segnata da gioie e sofferenze, è un misto di bontà e crudeltà: non ha una visione idealizzata o consolatoria dell’essere umano, al contrario; ma è sempre più convinta che ogni incremento di benessere individuale e di civiltà possa realizzarsi solo attraverso uno sguardo condiviso e oggettivo sul senso dell’esistenza, sulle certezze, sulla fragilità, sulla situazione di impermanenza che accomuna tutti noi: “Educare – scrive Antonella – significa prendersi cura di qualcuno più fragile e nello stesso tempo curare se stessi, dare voce alle proprie fragilità”. Arginare la perdita di senso e comprendere le oscillazioni delle esperienze mi pare sia la cifra del lavoro di Antonella, che è un vivace cantiere aperto, e anche della sua esperienza: ama la filosofia, il melodramma, la fotografia, la pittura, i lavori manuali. Si sforza di riconoscere la creatività in ogni sua espressione, vede connessioni e rapporti anche fra realtà apparentemente distanti, si ferma ad aspettare chi si è distratto ed è rimasto un po’ di lato, come quando da ragazzina va a fare volontariato presso il manicomio di Volterra o quando, da professionista stimata, lavora alla “Fondazione Stella maris” di Marina di Pisa. Non si tratta di un impegno privato e personale, ma di una prospettiva che si allarga alla più ampia costruzione di identità collettiva: “lo stare bene – scrive Antonella – è tanto più profondo e gratificante se condiviso con quante più persone possibili e non ottenuto in virtù di egoismo, cinismo e indifferenza”. Sono parole che mi pare descrivano bene un progetto di lavoro e di vita pienamente riuscito ed esemplare, che qui oggi onoriamo.

Simonetta Bassi

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